mercoledì 19 settembre 2007

E' arrivato un bastimento...

L’arrivo di una nave nel porto di Massaua, uno dei più importanti del Mar Rosso, era sempre un avvenimento. Bastava che un qualsiasi mercantile gettasse l’ancora di fianco alla Banchina, come era familiarmente chiamato lungomare Umberto I, perché decine di persone si accalcassero sul molo, sgomitando per conquistare la prima fila vicino alla passerella.

I più veloci ad arrivare erano i ragazzini eritrei, alla ricerca di una qualsiasi valigia da portare fino al più vicino albergo in cambio di una manciata di centesimi. Poi era il turno dei venditori d’acqua e dei commercianti arabi e nel giro di qualche minuto si avvicinavano alla banchina anche gli italiani, a partire dagli ispettori della dogana, che si facevano largo a pedate fra gli scugnizzi e i facchini del porto.

Quando poi attraccava da Genova il postale celere della Compagnia Italiana Transatlantica oppure il piroscafo mensile del Lloyd Triestino, l’attesa diventava frenetica. La nave era ancora impegnata nelle manovre d’ingresso nel porto e si apprestava a oltrepassare il promontorio di Abd el Cader, in direzione delle banchine Salvago Raggi e Regina Elena, ma già il lungomare brulicava di folla.

Vedevi accorrere i soldati in attesa della posta, i fattorini degli uffici coloniali che aspettavano il funzionario di turno dall’Italia, mentre i factotum degli alberghi cittadini – dal Grande Albergo al Savoia, fino ai più modesti Ghedém e Manetti – scrutavano come rapaci i passeggeri che scendevano dalla nave, in cerca di clienti.

Lungo la Banchina non mancava neppure la solita dozzina di sfaccendati, che passeggiavano svogliatamente su è giù per il molo. Per lo più era gente che campava di piccoli traffici, ai margini della legge. Alcuni avevano trasferito in Africa Orientale il millenario mestiere del ruffiano e incuranti delle occhiatacce se ne andavano per la banchina tenendo a braccetto donne dal trucco pesante e dallo sguardo malizioso. Così, tanto per fare un po’ di réclame alla mercanzia.

La raffigurazione di uno scium-basci in servizio in Eritrea alla fine del XIX secolo

Polizia coloniale

Nei ranghi della polizia coloniale, in servizio a Massaua come nel resto dell'Eritrea, non ci sono soltanto ufficiali, sottufficiali e graduati provenienti dall'Arma. Un apporto essenziale è dato dalle truppe indigene, sull'esempio degli ascari arruolati nell'esercito. Gli eritrei che indossano l'uniforme della polizia coloniale si chiamano zaptiè, termine, derivato dal turco zaptiye" (polizia).

La figura dello zaptié apparve per la prima volta nel 1888, quando si ritenne necessario aumentare l'efficienza organica della "Compagnia Carabinieri d'Africa" costituita da militari nazionali. La Compagnia era stata preceduta dalla "Sezione Carabinieri d'Africa", formata dal nucleo dei 10 militari dell'Arma che sbarcarono a Massaua il 5 febbraio 1885 al comando del tenente Antonio Amari di S. Adriano.

Selezionati accuratamente nell'ambiente civile oppure tra gli stessi militari indigeni di altri reparti, gli zaptié diedero sin dall'inizio costante prova di fedeltà e disciplina, integrando queste doti con quelle dello slancio e del valore in ogni partecipazione ad azioni di guerra. La loro esemplare individualità militare derivò dalla rigorosa formazione alla quale furono sottoposti dagli istruttori indigeni preposti al loro inquadramento. Insomma, gli zaptiè diventarono ben presto un reparto d'èlite.

Inizialmente gli zaptié avevano come loro graduato solamente il buluc-basci, cioè una sorta di sergente che rappresentava il trait d'union fra squadra ed il plotone. Ben presto, con l'aumento dell'organico degli zaptié e l'esigenza di una migliore ripartizione di responsabilità gerarchica tra le loro file, il buluc-basci divenne graduato intermedio tra il muntaz, da considerare capo-squadra, e lo scium-basci, che rappresentava l'unico grado di ufficiale ammesso per le truppe indigene, dotato del prestigio indispensabile a garantire - agli ordini degli ufficiali nazionali - la compattezza morale dei suoi dipendenti in linea con le tradizioni dell'Arma ed in qualsiasi esigenza del servizio.

lunedì 17 settembre 2007

Il porto di Massua


Massaua, 1935

Massaua, primavera del 1935. Già spirano venti di guerra. Non occorre essere indovini per capire che le tensioni con la vicina Abissinia sfoceranno in aperto conflitto. Dopo gli scontri di frontiera a Ual Ual, il Duce ha già fatto capire le sue intenzioni. E i maldestri tentativi del primo ministro britannico Eden di blandire e/o intimidire l'Italia non sono destinati ad andare a buon fine.
Al porto di Massaua i convogli militari si alternano ai mercantili e ai piroscafi che, dopo un lungo viaggio attraverso il Mediterraneo, il canale di Suez e il Mar Rosso, scaricano incessantemente merci e passeggeri diretti alla colonia.
Sono le otto del mattino ma fa già caldissimo. Mentre all'Asmara e nelle altre città dell'altopiano il clima è mite, tanto da meritarsi la definizione di "eterna primavera", sulla costa eritrea il sole e la canicola non concedono tregua. Un po' più a Sud, nella depressione della Dancalia, c'è uno dei deserti più desolati e inospitali del mondo, dove il termometro può arrivare anche a 50 gradi.
Quando esce in strada il maggiore Aldo Morosini, ufficiale dei carabinieri in servizio alla polizia coloniale del Bassopiano Orientale, sente la giubba appiccicarsi ancor di più alla pelle e i primi rivoli di sudore scorrere lungo la schiena. E' a Massaua già da qualche tempo, ma non riesce ancora ad abituarsi al clima tremendo della "perla del Mar Rosso". Forse non ci riuscirà mai.